Il fine giustifica i mezzi, diceva qualche secolo fa Niccolò Machiavelli. O meglio, la frase gli è stata attribuita seppur da lui mai scritta. Come molti sanno, la frase vorrebbe sintetizzare il concetto di machiavellismo, nelle sue interpretazioni successive poi sovente snaturato e avvicinato a torto ad intenti macchinosi, negativi, malevoli.

 

Ma andiamo con ordine. Lo spunto, il documentario “The Social Dilemma”, superchiacchierato del momento e da giorni saldamente tra le prime dieci posizioni dei più visti in Italia. Appare curioso che Netflix abbia prodotto e sostenga questo contenuto. Come altre piattaforme di streaming fa della profilazione dell’utente un asset strategico per mantenere alta la percezione di bisogno, conservare abbonati e generarne di nuovi con sofisticate leve transmediali.

Il documentario in effetti è costruito narrando una fazione, non prova a confrontare voci diverse e sottolinea un’unica direzione di pensiero, quella che attribuisce ai canali social un ruolo demoniaco di controllo dell’esistenza umana. Intervista imprenditori e collaboratori, ex dipendenti delle più grandi insegne social conosciute, Facebook, Twitter, Snapchat, YouTube, Google. Tutti inesorabilmente mettono l’accento sull’intervento profondo che questi ed altri strumenti hanno sulle nostre vite, sul tempo che passiamo sui social, sull’indirizzo che imprimono alle nostre scelte commerciali. Le minacce – appena raccontate – sono rappresentate da una storia, interpretata da attori, che dimostra la vita di una famiglia possibile quanto perfettamente costruita sotto il profilo dell’immedesimazione diffusa (interrazziale, figli in età diversa tra tardi millennials e gen Z). Nella storia i “cattivi” social abusano del nostro tempo e del nostro pensiero libero, fino a renderci zombie in balia di un sistema votato a massimizzare la raccolta pubblicitaria – che rende sempre più ricche le aziende che costruiscono le piattaforme social – e favorire un consumo sempre più elevato di beni e servizi. In chiusura si auspica un utopico distacco dal sistema, lo spegnimento dei sistemi di comunicazione, per la nostra libertà (metafisica).

La scelta di voler indirizzare il pensiero degli utenti della piattaforma, assieme all’inevitabile dibattito sollevato (cui faccio seguito con questo breve scritto) è essa stessa narrazione transmediale, come già anticipato leva per l’affermazione della marca (in questo caso della stessa Netflix) che si ammanta di valore etico-sociale, assumendo il ruolo archetipico del saggio, assai in voga di questi tempi, comunque sempre bestseller. Crea una relazione empatica, metanarrativa, per l’accoglimento e il posizionamento del valore che si sceglie sia attribuito. La nostra percezione delle percezioni di chi ha visto il documentario è ancora una volta falsata e distorta, come spesso accade e come viene ben spiegato dal bel libro di Bobby Duffy, “I rischi della percezione”.

 

Le risposte di chi è chiamato in causa non sono da meno. Esempi altrettanto sofisticati di narrazione che ricerca nella sua diffusione, nell’interpretazione e nella transmedialità dei contenuti delle conversazioni conseguenti un metodo per affermare lo stesso archetipo in difesa – o contrattacco – della marca.

Facebook scrive una interessante replica. Scrive, si badi bene: affida la replica ad un testo ordinato, dalla tipografia accurata.
Non è un caso, se si vogliono indossare i panni dell’autorevolezza, della figura cui si dimostra volentieri obbedienza – come spiegato dal famoso esperimento di Milgram. Lo fa prendendo in esame il contenuto trasmesso dal documentario e smontandolo per punti. Individuando errori della narrazione e dimostrandone l’infondatezza. È un contenuto irreprensibile, sia assumendo la sua costruzione (pdf, immodificabile) sia per la forma adottata, con un tone-of-voice molto istituzionale, pacato ed assertivo, tutto volto a massimizzare la fiducia e la relazione che la piattaforma social vuole, deve assolutamente mantenere coi suoi iscritti. Tuttavia, fin da subito sono evidenziabili espedienti narrativi che – quanto le demonizzazioni unilaterali del documentario – potrebbero essere etichettati come “di parte”.

La lettura attenta, la corretta valutazione dei numeri e delle affermazioni concettuali in relazione all’obiettivo di indirizzo dell’opinione, possono far valutare il documento in modo più critico. Senza dubbio, lo scopo è generare una certa percezione. E la percezione – che noi pensiamo di avere – delle percezioni di chi ha letto il documento è probabilmente anche in questo caso falsata, comunque più importante della nostra nell’indirizzare l’azione. Si sposta l’accento dall’obiettivo di business alla creazione di valore, il mezzo diventa il fine.

Così a fronte di alcuni (pochi probabilmente, trascurabili statisticamente) utenti che dopo aver visto il documentario avranno cancellato i propri profili social, ci saranno altri (altrettanto pochi) che si ergeranno a difensori della causa, della autorevole bontà dei social networks.

 

L’analisi e l’ascolto di un contenuto può essere fatto di relazione tra l’io/utente e la percezione che pensiamo generi negli altri utenti. Quello che forse è meno evidente è quanto il pensiero critico, l’analisi informata attraverso un processo di acquisizione di contenuti e pensieri generati diversi dal nostro, possa offrirci una visione più corretta di ciò che ci viene trasmesso.

Non c’è malvagità nel voler affermare il proprio modello, come non c’è malvagità nel voler vendere prodotti. I meccanismi sono i medesimi del consenso sociale. È quello che si fa da sempre, nella relazione umana, per essere accolti.

Quello che possiamo fare è accogliere consapevolmente il cambiamento – generato con l’adozione globale dei servizi condotti sull’internet. La nostra privacy è un valore, lo è solo se la si considera in modo personale. I dati vengono raccolti in modo univoco, ma vengono poi aggregati dai media sociali o dalle piattaforme più utilizzate. Essi non costituiscono un pericolo per il singolo utente, al limite ne limitano la visione. Ma per questo, noi possiamo fare molto per uscire dalla bolla relazionale. Essere consapevoli di questo significa comprendere che possiamo scegliere di utilizzare l’internet, che possiamo consapevolmente scegliere di essere inseriti in gruppi socialmente definiti per ricevere informazioni che alla fine ci interessano. Che possiamo uscire dalle logiche di informazione univoca tipiche delle forme di alimentazione delle fake news per essere esposti a pensieri diversi dal nostro, ma che ci fanno crescere, considerare, comprendere la differenza.

 

Se il valore della nostra privacy è il fine, i mezzi (sociali) possono darci molto. Dipende solo da noi, dalle nostre scelte.

Sull’uso dei dati, e sull’esposizione che vogliamo.