La prima volta che ho ascoltato Donata Columbro parlare di dati ho avuto un’epifania.
Come un sapore passaporta di giorni d’infanzia, come una canzone stargate di vacanze.

 

I dati stanno sulla stessa traiettoria ideale su cui mettiamo la narrazione e ne sono veicolo, stele di Rosetta, chiave d’accesso.

 

Non quindi una polarizzazione storytelling – realtà fattuale di cui il primo sarebbe arricchimento del secondo – per dirla con garbo, o fuffa per dirla e basta; ma una continuità di narrazione in cui la scelta dei dati da mostrare, i sistemi di riferimento, le finestre temporali e spaziali che vengono considerate sono parte della storia che vogliamo raccontare, o non raccontare.
Non c’è una realtà del dato calata dall’alto, in un cono di luce, c’è una storia che è tessuta insieme ai numeri, che li svela o nasconde; che ne è costituita.
tratto dal libro Ti spiego il dato di Donata Columbro 
© Donata Columbro – Quinto Quarto 2021 – Tutti i diritti riservati
I dati non sono neutri
Ogni numero implica una scelta fatta a monte, quella di escluderne altri. Per esempio, io che amo molto Roma la racconterò dicendo che è la capitale più verde d’Europa, con i parchi e le riserve naturali che occupano il 67% del territorio comunale (85.000 ettari sui 129.000 totali, fonte: Sito Roma Capitale), ma eviterò di ricordare che è ultima in classifica per mobilità sostenibile e sicurezza stradale (fonte: Greenpeace).
Anche la costruzione di un dataset, ovvero un insieme di dati per analizzare una situazione o un fenomeno, si basa sulla storia e sulle esperienze di chi lo compila, sulle sue idee. I dati sono costrutti sociali, sono il prodotto di relazioni sociali influenzate da secoli di storia.
In più c’è un altro grosso problema: non solo chi ha costruito quell’insieme di dati può avere bias cognitivi (pregiudizi e interpretazioni del mondo distorte dalla propria esperienza), ma ce li ha chi li ha riportati nell’articolo di giornale e ce li hai anche tu che leggi.
Uno dei bias che ci portiamo dietro è proprio quello che i dati afferiscano alla realtà, mentre la narrazione tenda a (cerchi di) crearla.

 

Il tema che invece sento centrale per chi fa, come me, della narrazione una divinità di cui essere devota vestale, è il fatto che per necessità strutturale l’uomo usa le storie per definirsi, definire i propri e altrui confini, interrogarsi sull’esistenza, inferirne il senso. 

 

Da Gilgamesh a Harry Potter, da Omero al Trono di Spade è con le storie che ci orientiamo nella Storia; è quantomeno irrealistico pensare che non sia così quando scegliamo un prodotto, un’azienda partner, un acquisto.

 

Narrazione non è solo racconto diretto, evocativo, come potremmo immaginare Gaga, è anche il rigore, la ricercatezza di chi sparisce in abiti che non si vuole che caratterizzino, e che invece ci indichino serietà, competenza. Il linguaggio, l’aspetto, tutto contribuisce al personal branding, che lo si voglia o meno. Pertanto è meglio essere in sella e guidarlo, anziché farsi guidare.
Ciò che vale per il singolo, come può non valere per un’azienda. Il purpose, raccontato sempre attraverso gli strumenti di comunicazione aziendale, deve incarnarsi nelle parole usate, nella scelta dei termini, nell’inclusività dei mezzi usati.
Oppure, è tanto per dire. Fuffa, come sopra.

 

E, non ultimo, dovrei poterlo respirare quando vengo in azienda, dovrei vedere come i valori decantati sono diventati scelte operative, packaging, selezione di fornitori, arredamento degli spazi.
Non è fantascienza, affatto. È molto più facile che accada che in azienda si facciano scelte importanti, utili, in linea con la propria mission e non ci sia evidenza, piuttosto che si raccontino benissimo cose che non sono vere.
Lo storytelling non è altro che la capacità di parlare delle cose che si fanno, in modo che interessino a coloro a cui sono destinate.
Se siete arrivati a leggere fino qui, l’ho fatto.  Anche questa volta.
(Immagine adattata da …)