Il digital divide culturale. Se ne parla sempre, che ci sono ancora numeri molto negativi per l’Italia. La ricetta per la soluzione al problema viene condotta sui social network, a dire il vero. Ossia, si parla di come avvicinarsi all’internet, usando l’internet. Eh.
Ci si chiede come ridurre – o azzerare perfino – la distanza tra utilizzatori e non utilizzatori dello strumento informatico. Significativo che se lo chiedano pubblicamente i diversi fornitori di TLC d’Italia, forse con diverso fine, intuibile.
E la banda larghissima? Altro tormentone estivo, puntualmente riproposto.
Tuttavia il problema esiste sul serio. Ancora troppe persone in Italia non usano e non sanno usare l’internet. Digital divide culturale, appunto. Quali sono le soluzioni?
Se lo chiedono in molti, anzi chiedono risposte alle persone. Chiedono punti di vista, chiedono che si fa. Le pubbliche amministrazioni, in primis, sono nel disagio. E gli enti ad essa collegati. C’è una evidente disparità in Italia tra comuni e comuni, province e province, regioni e regioni. In modo assolutamente disordinato, più in virtù della capacità di assumere capaci consulenti da parte dei politici militanti in provincia, che altro.
In certi casi, ci sono eccellenze isolate. In molti altri, deficenze idolatrate.
Non sono rari i consulenti protagonisti della comunicazione sul web – specie per le iniziative della cosa pubblica – dotati di mediocre competenza, è un errore in cui siamo caduti spesso. Ma per fortuna è giunta l’ora della rivincita per i migliori laureati in “scienza delle merendine”, com’erano definiti i diplomi in scienze della comunicazione: quelle persone – non moltissime, eh – che hanno compreso il cambio di paradigma, per dirla con Thomas Khun. Che non significa rinnegare il passato, ma procedere oltre, nel coinvolgimento che ci offre il mezzo sociale, l’essere connessi tra noi. Avendolo ben presente nel progettare i modelli di approccio alla comunicazione basati sull’internet.
La diffusione della rete necessita di modelli diversi di gestione delle informazioni trasmesse.
I messaggi in rete sono così diffusi e condivisi oggi da generare surplus, ridondanza di notizie e di reiterazione dei messaggi. Ma occorre chiedersi: che genere di messaggi? Basta soffermarsi un solo attimo a pensare che i media danno grosso modo lo stesso spazio alle stesse solite notizie, magari trattandole da diversi punti di vista, ma sempre le stesse.
Basterebbe trattare la ridondanza di informazioni non come un rumore fastidioso, coinvolgendo nuovi processi e nuovi modi di offrire la rediffusione dell’informazione in avanzo. Con l’aggiunta di alcuni ingredienti critici, come per la ribollita. La zuppa della percezione del messaggio ritornerebbe come nuova, perfino migliore, soprattutto diversa.
Tornando alle divisioni digitali, le ricette possono essere tante.
L’essenziale è invisibile agli occhi, come ne il Piccolo Principe: è l’infrastruttura. La banda larga, il WiFi libero ovunque, meglio la fibra ottica in ogni casa. Non basta solo questo, certo. Ma aiuterebbe.
Per avvicinare le persone all’uso della rete – come hanno suggerito in molti – ci vorrebbe un Maestro Manzi moderno. Però, forse, a domicilio. Programmi TV, allora? Ecco un opportunità per quelle TV sul digitale terrestre che vogliano fare qualcosa offrendo un palinsesto UTILE, così, per cambiare. E per farsi conoscere.
Oppure, che altro? Non dimentichiamo il meme #digitaldivide.
Se ne parla ovviamente nelle sedi politiche. Poi il messaggio ogni tanto – se lo si ritiene opportuno – rimbalza sui media. Non è affatto sufficiente.
Dobbiamo escogitare qualche mezzo molto bottom-up per avvicinare all’informazione e alla concreta percezione dei mezzi dell’internet i nostri nonni, o i nostri bambini. L’anomalia più grande è sotto gli occhi di tutti ma nessuno se ne accorge: i più giovani in particolare, che sono nativi digitali, sanno usare gli hardware (telefoni, tablet, computer) in modo molto rapido e flessibile, ma spessissimo non sanno affatto usare appieno l’internet, o ne comprendono le possibilità.
Dovremmo partire dall’assunto che ce l’abbiamo tutti, il digital divide. Lo abbiamo preso anni fa, appena si è presentato, come un virus resistente. Non ce lo toglieremo di dosso facilmente. Chiunque di noi, anche i più cool smanettoni, o chi si proclama socialmedia guru esperto, o quelli che basano la propria competenza sulla conoscenza degli strumenti e delle pratiche imparate solo grazie alla rete stessa, hanno il digital divide. Anche un prodigio dell’informatica ha il suo digital divide. Non sappiamo tutto, è impossibile. Non arriviamo a tutto, è inevitabile.
Dovremmo sempre ricordare l’insegnamento socratico, considerare la consapevolezza di non sapere. E provare a immaginare un mondo in cui tutte le singole consapevolezze siano unite da metainformazioni, costituite da una infusione ragionata dell’abbondanza di informazioni. Così il dato errato può essere corretto, nella cooperazione e nella circolarità dell’informazione condivisa.
In modo che anche un anziano analfabeta digitale, o un giovane dispercepito digitale, possa insegnarci non l’uso di uno strumento, ma come egli comprende il messaggio, da un punto di vista che non sia – ottusamente – solo il nostro.
È l’era dei big data, ma li sanno trattare in pochi.