Il marketing inclusivo fa riferimento all’insieme dei processi metodologici con cui rivolgersi a un pubblico maggiormente rilevante, cioè un pubblico più ampio rispetto a quello cui ci si rivolge di solito.

Con il marketing inclusivo trasformiamo il marchio in modo che attiri potenziale clientela includendola nella cerchia già conosciuta, piuttosto che considerare solo aspetti demografici superficiali. Quando si sceglie un pubblico di clienti, è meglio includere nella segmentazione anche genere, reddito, origine culturale ed etnica. In sostanza, l’attenzione è sulla diversità.

 

Ma perché?

 

L’idea di base è vedere il pubblico utile come una moltitudine di diversità.
Quindi possiamo vendere di più, ma non attraverso metodi diretti, promozioni e pubblicità con conversioni tracciabili ma stanche, abitudini imposte da un certo digital e dal programmatic.

Queste sono tattiche indispensabili, certo, soprattutto per le aziende più grandi, che hanno bisogno di certezze, di strategie misurabili e sicure. Invece con il marketing inclusivo abbiamo a che fare con la narrazione del valore, con un percorso virtuoso per consolidare la marca nel lungo termine, dunque capace di risultati meno eclatanti nell’immediato ma di grandissimo, decisivo impatto sui risultati futuri.

Terminata l’era dei lovemarks, avanti con l’era del risveglio, praticata intanto dai prospect più giovani: come sempre, ogni epoca porta cambiamenti annunciati proprio dalle ultime generazioni. E proprio per questo non si può confondere il marketing inclusivo con i diversi livelli di washing con cui abbiamo combattuto recentemente, ancorati al limite intrinseco di una segmentazione costituita esclusivamente da coorti definite dalle fasce di età, in quest’epoca di spazi pubblicitari tutti uguali e predeterminati.

 

Anche per questo è necessario ribellarsi: alla comunicazione datadriven che succhia risorse per la sua capacità di pressione, anziché per la capacità di bucare l’attenzione. Ci spingono da tutte le parti con la comunicazione pubblicitaria, come se pogassimo ad un concerto rock. E il risultato in generale è che non sappiamo bene chi ci ha spinto. Niente di accecante, niente di altisonante, niente di coinvolgente, emozionante, solo pressione. certo, in questo gioco vince chi spinge più forte. In barba alle regole di Richard Thaler, i brand che si fanno vedere di più, e ovunque, conquistano la shortlist. E capirai, che risultato.

 

E se invece fosse ancora e nuovamente possibile parlare ad un pubblico capace di ascoltare voci diverse, se fosse possibile farsi notare con la creatività e l’attenzione, con la cura anziché con la noia (molto) reiterata?

 

La rottura della deriva narcisistica di baby boomers e millennials – quella spinta al consumo che ha spostato i mercati negli ultimi quarant’anni verso la soddisfazione di sempre nuovi bisogni edonistici – oggi è palesemente evidente. Soppiantata da una tendenza sempre più forte nel ritrovare equilibrio, considerazione di sé e ridimensionamento delle apparenze, nuove responsabilità e attenzioni collettive trasversali ai gruppi distintivi.

 

Per questo l’inclusività è tema del momento, e ai Grammy di quest’anno ha vinto Kim Petras, artista transgender ed è la prima volta, e a Sanremo c’è stato il bacio tra Fedez e Rosa Chemical, e agli Oscar da qualche anno si celebra la diversità – e quest’anno non è stato da meno. Sono segnali di un mondo che cambia.

Per tutto questo, praticare la scelta di fare marketing inclusivo porta innegabili vantaggi di awareness, di miglior percezione del brand, di rinnovata attenzione al messaggio di comunicazione.
L’advertising, la pubblicità torna a distinguersi nel mare caotico delle migliaia di messaggi cui quotidianamente ci sottoponiamo. Si stima una media di 6000 messaggi/giorno, per noi occidentali.

 

Appaiono chiari due vantaggi inequivocabili e irrinunciabili, oggi come oggi. Innanzitutto, presentarsi come una realtà che offre attenzione all’inclusività permette di presentare in modo granitico il proprio brand. Di attribuire valore alla marca, un valore di capacità inclusiva. Che straordinaria capacità hanno i brand che si impegnano in questo senso!

 

L’universo valoriale connesso alla rappresentazione dell’attenzione verso le diversità contiene in sé la gentilezza, l’attenzione e la cura, l’accoglienza, la capacità di ascolto e di intervento, il sostegno, la capacità di prendere posizione, il saper essere inamovibili dal punto di vista etico, volitivi e assertivi, pronti a misurarsi col mercato e coscienti delle proprie scelte. Mostrare tutti questi valori rafforza il posizionamento. Rende la percezione della marca più forte che mai.

 

Inevitabilmente, al miglior posizionamento si aggiunge l’opportunità di aumentare le conversioni e l’acquisizione di clienti. Questo perché gli annunci che dimostrano quest’attenzione sono più riconoscibili, si fanno notare, perché i contenuti costruiti e scritti con un approccio inclusivo sono diversi e si vede, anzi si legge.

E quindi maggior attenzione, maggior condivisione, apertura verso pubblici prospect nuovi, maggiori volumi di vendita: siamo certi che lo scrivere inclusivo non sia un vezzo del momento, ma il segnale di un cambiamento polare nella comunicazione pubblicitaria che torna prepotentemente a saper coinvolgere, a saper parlare al cuore, a saper sollevare emozioni, a lasciare un segno tangibile.
Perché la buona pubblicità vende i prodotti e rafforza la marca, e se ben scritta può persino migliorare il mondo!

 

Qualunque azienda oggi non può ignorare il cambiamento. Bisogna lavorare sulla brand diversity, sia per la corporate identity, per l’employer branding, sia per la promozione del prodotto (o del servizio), scrivendo comunicati in grado di cogliere le differenze e parlare alle diversità. Il rischio di apparire opportunisti è dietro l’angolo, dunque va fatto con grande attenzione.

 

E per distinguersi, meglio chiedere a chi comprende bene il valore della differenza.

(Immagine creata da mmad con midjourney)