La definizione di relatività linguistica si origina parecchio, parecchio tempo fa.

 

Quando Einstein si fece famoso con la sua relatività fisica, il mondo fu scosso e tutto apparve (di nuovo) relativo. In linguistica, questa peculiare tesi è attribuita a Sapir/Whorf, rispettivamente docente e allievo. Ma è un errore, la tesi è tutta di Whorf (e che storia), frutto delle influenze di quel periodo sul pensiero (come la teoria della Gestalt) e dei suoi studi sulle popolazioni indigene centroamericane. Della lingua hopi trova interessante che non vi siano parole, forme grammaticali, costruzioni o espressioni che si riferiscano espressamente o direttamente a quello che chiamiamo tempo. Da qui sviluppa una sua visione, che si sintetizza nella definizione di relatività linguistica: la struttura del linguaggio influenza la visione del mondo e la percezione delle cose da parte di chi lo utilizza, e viceversa.

 

La lingua che parli determina quel che pensi, nella sua interpretazione forte. Numerosi studi sono stati condotti da allora e in ogni parte del mondo. All’inizio l’interpretazione forte, più estrema, ha il sopravvento – influenzando gli influencer dell’epoca: era facile, tra due conflitti mondiali. Dopo la guerra gli studi e i loro studiosi si orientano verso un’interpretazione meno assoluta, supportata da evidenze sperimentali, in cui si afferma che la lingua influenza e forma il pensiero di chi la parla, senza limitarlo o ostacolarlo definitivamente. Ma viene poi aspramente criticata, ridotta al semplicismo, alla superficialità della sua applicazione rispetto alla predominanza sottostante di principi cognitivi universali.

Quindi la lingua che parliamo ci influenza e può definire i pensieri, ma possiamo superarlo.

 

Meno male, che è di un lustro fa la pubblicazione di una ricerca durata quarant’anni che individua una progressiva diminuzione del quoziente intellettivo a livello globale – definita come effetto Flynn inverso. Le cause sarebbero definitivamente ambientali, non genetiche: diminuzione della qualità scolastica, dell’accesso a proposte culturali, espansione dell’isolamento cognitivo. E un certo impoverimento linguistico. La semplicizzazione, la perdita del congiuntivo, i tempi sempre al presente, la riduzione della qualità e ricchezza di vocabolario.

 

Le perdite della lingua determinano perdite di pensiero. Si riesce a immaginare di meno, sempre qui e ora. A volte ci vuole, ma ci vuole ben altro per guardare avanti.

 

Che il Whorfismo sia stato riscoperto dopo gli anni ottanta del novecento, in coincidente concomitanza con il declino dei QI e la nascita del quasi omonimo Worf nella serie StarTrek, è storia.

 

Il Worf senza l’acca è il personaggio che è apparso più volte di tutti gli altri nello StarTrek Universe e quello che ha fatto scoprire al grande pubblico i conlang, i linguaggi costruiti come il Klingon (in questo caso si parla di artistic/fictional language) insieme con le basi dell’Esperanto nel primo Manuale delle Giovani Marmotte.

 

Tutti i linguaggi artificiali sono stati ispirati dal relativismo linguistico. Una sua rinnovata percezione, e la rivalutazione del whorfismo, credo siano un atto dovuto ad un uomo che non aveva certo un pensiero semplice, e che certi semplicismi aveva rifuggito.

Così come semplificare (come quando ho provocatoriamente scritto: … la lingua che parliamo ci influenza e definisce i pensieri …) non aiuta di per sé a rendere più comprensibili i concetti. Anzi rischia di generare incomprensioni. È proprio un esercizio brutale, che avvilisce chi ascolta e svilisce il pensiero, che bisogna imparare a riconoscere e rifuggire.

 

In comunicazione pubblicitaria si scrive da un po’ con il limitatore di ampiezza, percorso privilegiato per il pubblico del largo consumo. Le frasi grandi e chiare per quanti più umani consumatori possibile, i jingle, gli slogan che passano persìno alla storia. L’interpretazione forte (con tutto il suo campo semantico) è spesso anche la più generalista, la più semplicistica, la più banale. Inevitabilmente, dovendo limitare la ricchezza di pensiero, a favore di un livellamento verso i più.

 

Tutto questo ha generato impoverimento dei linguaggi – e sì, sono responsabili anche i pubblicitari, che hanno un ruolo nell’influenzare, pur opportunamente, le persone. E per questo alcune nuove generazioni di creativi (tutt’altro che immuni alla riduzione linguistica) si entusiasmano quando qualcuno ha un idea che quarant’anni fa sarebbe apparsa mediocre (la comunicazione di Unieuro su TikTok – imparagonabile alla creatività di molti Carosello).


La relatività linguistica ha ben ripreso dopo gli anni novanta il suo fondamento e la considerazione della comunità scientifica, in particolare modo di chi studia i contesti complessi. Questo è un bene e il segnale – l’ennesimo – di un sentimento tra le persone che privilegiano e si attendono maggiore complessità.

 

Tutto è relativo, ma l’impegno in questo senso può avere un suo peso. Può incidere sul futuro.

 

La semplificazione dei linguaggi genera percezione piatta ed immediata, e rapidità di controllo. Non è un caso che in tutta la letteratura che narra di regimi si pratichi sempre la limitazione del linguaggio – come in 1984 di Orwell. È un esercizio utile per chi vuole detenere potere. Serve a dividere, a polarizzare, a renderci preda di populismi – funzionali o beceri secondo i gusti.

 

Le aziende hanno l’opportunità di usare la propria voce per fomentare un certo rinascimento, che si può originare da considerazione e accoglimento del relativismo linguistico per comprendere la complessità del linguaggio.

 

In questo senso, del linguaggio che le aziende usano occorre valutare i rischi che sono legati non al suo cambiamento evolutivo – sempre auspicabile – ma al suo depauperamento, alla sua riduzione in termini di qualità e quantità. E ricercare i vantaggi che un linguaggio ricco, ben praticato e dunque ben recepito può garantire in vendite e posizionamento. Un linguaggio che sa scegliere strumenti diversi dedicati a pubblici diversi, dalle aspettative più disparate, che sa mutare e praticare toni complessi e mutevoli come le persone.

Au contraire dell’universalità – che ogni utente di pubblicità vorrebbe rifuggire perché si vuole distinguere.

 

E allora, ri-scriviamo e in-scriviamo il nostro impegno per una comunicazione complessa e per questo più efficace, e migliore.

(Immagine creata da mmad con midjourney v. 5.2)