L’imprescindibile ufficio stampa, che sempre ogni ente e organizzazione deve vantare, produce la comunicazione del palazzo. Quando lo fa in modo virtuoso, giustamente per mettere in comune quel che l’ente fa. Nella pratica invece spesso con l’intento di affermare la voce politica, anziché l’impegno di amministrare un ente, un servizio, una città.
Impegno che almeno dovrebbe animare il governante a perorare progetti di lungo periodo, utili alle persone e alla crescita.
Ma per niente utili alla personalistica difesa della poltrona, perseguita sovente da chi la occupa. In questo paese atavicamente malato, di immobilismo e ignavia.
Anche certi professionisti della comunicazione, una volta persone capaci, si alzano per parlare senza confronto, in barba all’etica, per assecondare le paturnie del politico che li ha assunti. Nella migliore delle ipotesi.
Esemplifichiamo. Le esternazioni di un ec assessore al turismo del Comune di Lucca, opportunamente veicolate dall’Imprescindibile Ufficio Stampa, raccontavano del nuovo piano che l’amministrazione comunale voleva attivare. Per rilanciare (ancora?) la città si pensava ad un brand: “…dobbiamo dare alla città un’identità visiva, un Brand, uniforme e sempre riconoscibile in ogni ambiente o tipologia di media – dai siti internet, alle campagne di affissione, alle pagine pubblicitarie sui magazine etc. Creare un Brand per Lucca è necessario se vogliamo sostenere e promuovere l’offerta della città per affrontare i mercati internazionali. In questo modo avremo a disposizione una cornice che rafforzerà sia gli eventi principali oggi già presenti che quelli in fase di ideazione”.
Si alludeva ad un marchio. Un logotipo. E via via ci si torna su. Una soluzione pratica che ha coinvolto diverse città in Italia (dalle grandi metropoli alle frazioni, ai Consigli Comunali…) con l’intento di avere quella notorietà che il famoso I(love)NY del grande Milton Glaser ottenne con gli anni (e con straordinari investimenti, e con unità di impegno, e con placement e complicità della “città che non dorme mai” – azioni e atteggiamenti un bel po’ diversi da quelli mostrati nella vecchia Italia).
Ma questo che allora e ancora si vuol praticare da certe amministrazioni nelle nostre città, più che un intento, è ascesi onirica – o populismo politico.
Oggi, sempre, un brand in realtà è molto più che un segno visivo. Coinvolge l’immaginario, la reputazione, la notorietà. È fatto di storia, opinioni, chiacchiere. È quello che le persone pensano, quindi l’idea che si sono fatti. Non è mai solo un esercizio di stile o un concetto trasmesso. Un city brand è legato all’architettura (la torre pendente, l’Eiffel), alle tipicità alimentari (la pizza, lo champagne), alla notorietà di un evento (oktoberfest, palio) allo sport, alla cultura, alla geografia, all’arte. All’unità dei suoi cittadini. Alle tante voci che si consolidano nel tempo.
Un brand per una città non é un segno grafico. È un multiverso di valori che assieme contribuiscono a creare identità, una somma di particolari che la individuano in modo unico. Non necessariamente legati alla storia, anzi più spesso al presente storico.
Così se pensiamo a Parigi o a Los Angeles, che ci siamo stati oppure no, ci vengono in mente le immagini che abbiamo visto mille volte, le conversazioni con amici e parenti, le sensazioni che abbiamo provato vedendo film o leggendo libri che vi siano ambientati. Non ci viene in mente alcun brand visivo adatto che individui in modo univoco la città. Semmai mille caratteri diversi per scriverne il nome in tutte le lingue.
È il guaio del nostro tempo. Che si voglia far credere qualcosa solo con il belletto, con l’apparenza. Non a caso il presidente di Estée-Lauder aveva affermato che “in tempi di crisi si vendono molti più rossetti” per compensare con il trucco una condizione personale difficile, che infligge pensieri cupi.
Con lo stesso intento si è sempre cercato di far credere che marcare il territorio della comunicazione per la città con un segno estetico potesse migliorare la percezione e canalizzare flussi.
Va da sé che si sia guardato alle elezioni, anziché ad incrementare il turismo. Forse – ci vogliamo augurare – perfino inconsapevolmente.
Creare un brand identificativo per la città significa valorizzare quello che abbiamo, nella storia e nelle eccellenze, raccontando in modo accattivante chi siamo. A lungo. Con coerenza. Investendo molto, e fuori da qui, non sui giornali locali. Significa essere creativi, creando nessi nuovi fra cose note nella definizione attribuita a Vilfredo Pareto, per attrarre il pubblico che si vorrebbe. Altro che cornici, o marchi, o concorsi per il logo.
E’ l’intensità del racconto che crea emozioni, non la grafia con cui è scritto.
Forse dunque il motivo principale per cui non si potrà mai fare promozione turistica efficace é il campanile.
Un campanile ormai solo politico: le persone vivono, consumano e lavorano ben oltre i confini comunali. Sono gli amministratori che non parlano tra loro, difendono ad oltranza le proprie territorialità politiche (leggi isole di potere) e non si alleano se non per scopi propagandistici, spesso tesi a conservare la posizione seduta. Nessun umbrella brand potrebbe ottenere alcun risultato, di fronte a questo.
C’è un panorama commerciale, e industriale, che eccelle grazie alle logiche di sistema che le imprese sanno attuare, perfino tra competitors. Grazie alle unioni, alla sinergia verso obiettivi di lungo termine, di cui beneficiano tutti. Ma non è d’esempio.
Siamo costretti ad assistere a scene ridicole di sovrapposizioni e sprechi nelle amministrazioni pubbliche, a personalismi che pur suscitando livore e risate quando propinano le proprie idee non accennano a cambiare, in questa infinita riaffermazione dei poteri e poverini che ingessano da sempre l’impresa e lo sviluppo. Le singole amministrazioni vogliono parlare dei singoli enti e così scriverci un comunicato. Per perpetrare questo status quo, inopportuno.
Marco G. Matteoli
ultima revisione: agosto 2015