Qualche tempo fa c’era un nuovo video virale che spopolava nel mondo. Siccome era in inglese, in Italia non se ne sapeva ancora molto. Venne pubblicato il 3 marzo 2012. In pochi giorni raggiunse oltre 68 milioni di visualizzazioni. Tantissime, soprattutto se consideriamo che durava ben trenta minuti. Uno scritto di quei giorni:
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È stato realizzato da Jason Russell – ne è anche voce narrante – di Invisible Children, una organizzazione no profit statunitense che si impegna dal 2004 contro la LRA, o Lord’s Resistance Army, militanti ribelli il cui leader storico è Joseph Kony, pluriricercato capo di questi insorti contro il governo e l’esercito ugandese fin dal 1987.
(Dovrebbe essere) famoso per le stragi di civili in Uganda, e per il sistematico rapimento di piccoli civili – oltre trentamila, secondo Invisible Children. Le bambine vengono usate come schiave sessuali, i bambini impiegati per combattere. Chi si ribella o tenta di fuggire viene orrendamente mutilato, o ucciso.
Il regista parte da lontano, dagli inizi delle attività per denunciare la LRA, adoperando un registro narrativo molto toccante.
Russell costruisce il documentario con un espediente, la necessità di raccontare i fatti – orribili – al proprio figlio. Ci mostra così la storia del suo rapporto con un piccolo ugandese, Jacob, conosciuto nel 2002, che ha vissuto la guerra civile e assistito alla mutilazione del fratello. Costruisce attenzione crescente e repulsione per le atrocità inflitte all’Uganda del nord, ci racconta i primi risultati delle azioni di informazione e documentazione con una community su Facebook, che informa il popolo del web delle iniziative del gruppo, della loro protesta forte, e creativa. Spiega come l’informazione e la denuncia di queste oppressioni su interi popoli dell’Africa Centrale sia proseguita – quando i ribelli hanno lasciato l’Uganda per il sud del Sudan, la repubblica del Centrafrica e il nord del Congo: Jacob e altri ugandesi hanno potuto unirsi ad Invisible Children, e raccontare di persona, dal Messico al Canada, quanto avevano vissuto.
La protesta non si è fermata, ci racconta il film, le voci si sono moltiplicate e la community si è allargata. Fino a raggiungere alcune importanti risoluzioni politiche in USA, e all’intervento di un piccolo gruppo di truppe scelte statunitensi disposto da Barack Obama lo scorso ottobre 2011. Incredibilmente, o anche logicamente, 25 anni di terrore non sono ancora conclusi. Quei territori sono pieni di gas naturali e petrolio, in gran parte non estratti.
Fin qui la storia che più o meno è stata raccontata anche in Italia su questo film. Alcune testate online, soprattutto piccole, molti blogger, ma il quadro è in divenire e presto anche le firme più importanti si produrranno sull’argomento. Resta da vedere come. Finora molti replicano acriticamente la notizia, sottolineando come queste iniziative umanitarie di raccolta fondi per la denuncia dei fatti abbiano sollevato polemiche perché si sono usati soldi per produrre film, anzichè per interventi diretti. O per il presunto sostegno di quelli di Invisible Children all’esercito regolare ugandese nella lotta contro i ribelli.
È da qui che iniziano le nostre considerazioni sull’evento, sulla comunicazione dell’evento, e sull’informazione in rete, circolare.
Il video si conclude – dopo la storia recente – con la presentazione dell’iniziativa di comunicazione cui è collegato. Parte da una semplice questione: chi ha visto Kony? Magari se ne è parlato, magari qualche Tg ha dato una fugace notizia, negli anni. Ancora pochi hanno davvero visto in faccia il comandante della LRA.
A quelli di Invisible Children viene in mente un’idea creativa e geniale. Realizzare una campagna elettorale finta – sovrapposta a quelle per le presidenziali USA – per rendere famoso il volto del ribelle dittatore. Si mobilita mezza America, la notizia fa il giro del mondo. Renderlo famoso potrebbe permettere alle persone, come è già accaduto negli scorsi anni, di imprimere una pressione maggiore ai governi per l’arresto di questo orrendo criminale, per fermare gli eccidi, i rapimenti, la limitazione di ogni libertà personale.
Nel mondo anglosassone non si parla che di questo, dalla vecchia Europa alle ex colonie asiatiche, dalle Americhe all’Australia.
Questo film è molto ben fatto, perfettamente postprodotto. È reale, crudo quanto basta per i nostri tempi, quindi non troppo. Agisce direttamente sull’amigdala. Reinventa l’antica favola dell’uomo bianco buono che salva i poveri negri. Ma lo fa con un obiettivo: quello di informare per sensibilizzare, e far parlare le persone.
È un film, non è l’internet. Usa l’internet per diffondersi con la moltiplicazione esponenziale dello sharing. Usa – e pubblicizza – Facebook. Adotta YouTube e Vimeo per rendersi disponibile e condivisibile, promuovendo entrambe le piattaforme.
Come suggerisce Massimo Galardi, social media strategist e copywriter, probabilmente è stato raggiunto un nuovo standard per le campagne umanitarie.
L’internet con il suo potere di coinvolgimento è in grado di aumentare la tempestività delle informazioni, ma anche il loro peso specifico. Milioni di persone nel mondo che ascoltano o discutono un singolo tema sono in grado di influenzare, e non poco, i media tradizionali, perché li superano.
Per farlo, per raggiungere e coinvolgere attivamente una audience a livello mondiale, è necessario omettere alcuni fatti e romanzare la realtà. Costruire un prodotto di comunicazione con il minimo denominatore comune, per coinvolgere il pubblico più ampio possibile. Milioni di persone credono ciecamente, senza verifica, a un fino-a-ieri-sconosciuto videomaker che vuole spodestare un sanguinario leader, altrettanto sconosciuto.
Le informazioni della gran parte dei giornali italiani sono soprattuto negative, amplificano le tante critiche che l’organizzazione e il regista hanno ricevuto e di fatto impoveriscono il messaggio. Sembra quasi che molti di coloro che ne scrivono non abbiano nemmeno visto il film, o non l’abbiano capito. Quasi nessuno cita la campagna in corso, quello che sta accadendo negli Stati Uniti, quello che si è costruito in Africa. Da qualche ora, per loro, c’è una versione sottotitolata in italiano.
Se la notizia non viene trasmessa con la necessaria competenza, con l’attenzione e la visione che merita, il messaggio viene mutilato, depauperato di contenuto.
Così fallisce in nome dello snobismo chic o della critica fine a sé stessa l’obiettivo che dovrebbe essere più evidente per il giornalismo: c’è un tizio che semina terrore da vent’anni, e la gente non lo sa. Rendiamolo famoso. Se il tizio sia supportato da grandi poteri che vogliono sfruttare le ricchezze naturali di quei luoghi, verrà fuori. Se il tizio è solo un pazzo, verrà fuori. Se chi fa il film e ci mette la faccia è colluso o profittatore, verrà fuori. Occorre parlarne, prima.
La capacità della comunicazione circolare dell’Internet è la possibilità di costruire la notizia per noi stessi, e discuterla: deve essere nostra cura pesare con attenzione ciò che leggiamo, e cercare altre fonti.
Di sicuro ora molte persone nel mondo sapranno chi è Kony. Questo è un bene o un male? E il registro televisivo del format commuovi/sorridi, adattato alla comunicazione sociale, è una scelta opportuna o poco etica?
L’ultima parola, al solito, è di chi ascolta.