Forse non ci pensiamo, tuttavia. Ma il web non è solo ciò che navighiamo ogni giorno.
Lo spunto, al solito, ce lo offre l’informazione quotidiana e periodica. Con la sua incredibile e ampiamente deprecabile incompetenza nel porgere la notizia al lettore/ascoltatore/spettatore. Non è il mezzo, tuttavia, il problema. No, perchè ormai si sa che “c’era scritto sul giornale” non basta più a costruire autorevolezza. Si sa anche che l’informazione, sulla carta come sul web, la fanno i giornalisti, e che i giornalisti privi di autocritica sono tanti e si arrogano il diritto di dettare le condizioni, perfino.
Certi giornalisti che non sanno di cosa parlano ma ne parlano, perfino applicando l’esercizio della critica a ciò che non conoscono, generando due reazioni contemporanee ed opposte: da una parte il ludibrio di chi comprende o conosce il contesto, dall’altra la contribuzione ad una ignoranza pervasiva e consistente, agghindata com’è la protervia di certi paladini dell’informazione, di presunta sapienza.
Un tempo c’era il Bignami. Uno strumento costretto e veloce, adottato con scarsa fatica per il rapido accrescimento nozionistico. Certo la collana dei Bignamini non nasceva con questo intento: erano soprattutto pensati per condensare le informazioni in forma organica secondo i programmi di studio, come un utile ripasso prima degli esami. Dovevano servire a controllare gli studi, ma col tempo e con l’abuso distratto sono stati purtroppo declassati a surrogato della conoscenza, veri e propri testi alternativi – per certe materie delle scuole superiori – su cui imparare (poco) per raggiungere (forse) la sufficienza. Un modo perverso per male apprendere, che si è radicato negli anni producendo generazioni di ignoranti inconsapevoli di non sapere, sopportato e a tratti avallato da una intera genia di insegnanti poco proba, assai lassista.
Se l’ignoranza fosse consapevole, sarebbe un’opportunità.
Scuole a scartamento ridotto, programmi universalmente calibrati verso il minimo comune multiplo sostenibile da genie di studenti dissimili e sempre meno autoctoni. Un sistema di (scarsi) valori obsoleto, in crisi perfino qui, ma ancora produttore di convinti.
Si dovrebbe divulgare la consapevolezza della mediocrità intesa nell’accezione più pura come condizione umana normale, per lo più: sarebbe un modo concreto per aiutare le generazioni future a cercare qualcosa d’altro rispetto a ciò che viene offerto loro per vie facili, troppo facili.
Assistiamo invece a valutazioni di merito – nella scuola e nella vita – che sembrano mutuate direttamente dalle classifiche della musica leggera, in cui si definiscono “straordinari” centinaia di artisti che, solo nel secolo scorso, non avrebbero potuto far altro che esibirsi in un teatro di quart’ordine. Nel nostro tempo oscuro di ignoranza reiterata e felice essi invece vanno in TV, contribuendo con l’intento dei format ad un depauperamento cronico dell’universo valoriale, della percezione di sé.
Non è cosa di poco conto cercare di accorgersi di quanto accade attorno a noi. La comunicazione in questo senso è l’arma più potente in giro, usata ogni giorno per affermare certe disfunzioni, o combatterle. In questo conflitto laterale, le persone e spesso anche le aziende sono vinte, perché non conoscono o non padroneggiano gli usi e le regole della comunicazione, o hanno la presunzione di saperne molto – il che produce lo stesso effetto, e anzi amplifica perfino le scelte sbagliate di chi crede di avere una visione corretta. Soccombiamo culturalmente, di fronte al fuoco di fila delle stupidità.
Così la nostra opinione pubblica é gestita di volta in volta dalla massa di informazione che riceviamo. Come nei primi del novecento molti credevano fortemente alle assurde teorie razziali propagandate con chirurgica veemenza dal Terzo Reich, così oggi moltissime persone credono ai valori dell’avere, immobilizzano le proprie scelte (e la nostra economia) a causa della paura o della scarsa conoscenza, non si interrogano sul futuro se non in relazione al sé, vivono superficialmente in un coacervo di comunicazioni assai superficiali.
L’oscurantismo di oggi è perfino più bieco e terribile di quello che veniva praticato in antitesi all’illuminismo, nel XVIII secolo. Questo nostro nuovo meta-oscurantismo, assai luccicante, indipendente dalla geografia quanto connesso all’economia – è prodotto dalla ridondanza di informazioni, anzichè dalla loro assenza o mistificazione. È un sottile, pericoloso metodo di semplicizzazione dei valori che può acuire la povertà intellettuale e generare affezione ad un universo valoriale complessivamente debole, dallo scarso contenuto. Una estesa competenza sottile, che ci dà un’impressione di conoscenza tanto consapevolmente vantata quanto – meramente – inutile.
Questa deriva di non conoscenza è una concausa della diffusa dispercezione di stupidità che ci affligge, che coinvolge sovente da vicino la comunicazione (e le sue implicazioni sociali).
Non ce la possiamo fare, dicono in molti. L’Italia non ce la può fare, per un sacco di motivi. Questo messaggio ultimamente è assai diffuso sul web. Piangersi addosso, commiserarsi. O forse, è più un pianto per distrarre, per provocare opportunistiche commiserazioni.
In ogni caso, è un modo per contribuire al sentire della rassegnazione. Lungi dall’essere esortativa, infatti, la resa è sempre una espressione di esaurimento, è conclusiva, non lascia speranza. È l’atteggiamento omertoso di chi guarda solo a sé, senza indignarsi per gli altri, senza lottare per una causa, ma solo, edonisticamente, per la propria.
Al contrario, l’azione concreta, pur localizzata, pur piccola, pure limitata, può sempre costituire uno stimolo. Può essere d’esempio, può far riflettere quelli di noi che hanno voglia di farlo.